UN’EUROPA “INCLUSIVA” E “VERO PUNTO DI INCONTRO”

Nel ricordo di Giovanni Conti

– di Giovanni Conti jr

L’11 marzo 1957 moriva in un letto francescano  il  repubblicano storico e Costituente Giovanni Conti, marchigiano:  ebbe la gioia di veder nascere la Repubblica italiana  ma non la firma del Trattato di Roma, avvenuta appena quattordici giorno dopo il suo trapasso.

La sua vita era stata votata al sogno di una democrazia repubblicana che abbracciasse i popoli d’Europa, nel solco della tradizione Mazziniana.  La sua biblioteca e le sue carte, conservate presso l’Archivio di Stato di Ancona, erano piene di scritti e studi dei più insigni europeisti, e fra tanti un dattiloscritto di Richard Nicolaus di Coudenhove-Kalergi, il filosofo politico che nel 1923, mentre Conti combatteva l’avvento del fascismo in Italia, ipotizzava una Paneuropa che risolvesse gli egoismi nazionali e affiancasse i popoli accomunati da un’unica  variegata cultura.  Fu Kalergi, in quegli anni,  a intuire l’importanza di riunire il carbone tedesco e il minerale francese sotto un’unica autorità; progetto che si sarebbe concretizzato nel Trattato di Parigi del 1951 sotto il nome di Comunità europea del carbone e dell’acciaio.  Al suo pensiero si avvicinarono in quei tumultuosi anni venti Albert Einstein, Sigmund Freud, Miguel de Unamuno, Rainer Maria Rilke, Konrad Adenauer.  E le sue tesi apparentemente visionarie fecero traccia in Robert Schuman, Wiston Churchill, Alcide De Gasperi e in quell’ Aristide Briand che nel 1929 presentò alla Società delle Nazioni un progetto di Unione Paneuropea.  Fu Coudenhove-Kalergi, figlio di un diplomatico ungherese e di una dama giapponese discendente da un Samurai, a preconizzare nell’Inno alla gioia di Schiller, messo in musica nell’ultimo movimento della Nona sinfonia di Beethoven, l’inno dell’Europa unita.

Il cammino europeo è costellato di successi e segnato di delusioni.  Dandosi il giusto risalto alle libertà fondamentali dell’Unione Europea, sfugge talvolta una considerazione che può apparire anacronistica:  il diritto moderno, statale e non statale, disconosce sia l’istituto dell’esilio che quello dell’ospitalità.  Il cittadino, nel diritto moderno, non può essere esiliato perché non ha diritto, altrove, all’ospitalità. Sul versante dell’ospitalità il diritto moderno fa indubbiamente un passo indietro rispetto ai popoli antichi, se è vero che Ulisse, al momento del traumatico incontro con Polifemo, invoca proprio il diritto di ospitalità. E non smentisce l’antica usanza il fatto che Polifemo, figlio di un dio, non si sia riconosciuto nella cultura umana e abbia negato agli sventurati naviganti l’ospitalità altrimenti dovuta dagli uomini.   Ma è sul versante dell’esilio che la considerazione si fa più cocente:  l’idea di un’Europa operativa, centro di incontro e mediazione di reciproci interessi, si sviluppò nella prima metà del Novecento mentre le peggiori dittature negavano ai propri cittadini il diritto di permanere sul proprio territorio o negavano loro  asilo.   La Shoah e le leggi razziali ne sono l’esempio più sconvolgente.

Ebbene, se non pare il caso di ricordare qui i traguardi di libertà raggiunti in sessanta anni di collaborazione tra i popoli europei,  forse vale la pena rammentare che sono stati anni di pace ininterrotta nel continente che fino a poco prima era stato causa di due conflitti mondiali.

Nell’Europa dei popoli i cittadini non vengono esiliati, privati della loro identità, ghettizzati. L’Europa ha fatto cadere muri, confini, dazi, frontiere. Speriamo ora che sappia essere di esempio nell’uso antico di concedere ospitalità alle persone bisognose e meritevoli e che tanto lavoro, non di alcuni ma di un intero popolo di quasi cinquecento milioni di persone, non si perda nel riflusso dell’ignoranza.