LA TUTELA E IL RILANCIO DEI CORPI INTERMEDI

Un continuo attacco a tutto ciò che è in grado di mettere insieme le persone facendole dialogare – di Antonio Foccillo*

È ancora possibile nel 2018 parlare di corpi intermedi o si tratta di un mero retaggio storico che non ci appartiene più? Rispondere laconicamente o con superficialità a un quesito simile di certo non risponderebbe poi a tutta una serie di domande sottese alla prima. È necessario fare un ragionamento di più ampio respiro. Mi riferisco, precisamente, più che all’esistenza o meno al giorno d’oggi di corpi intermedi, al ruolo che questi svolgono e possono ancora svolgere nel nuovo modello di società che negli ultimi anni si è andato delineando. E anche qui, forse, non possiamo fermarci a dire che ci troviamo di fronte a un nuovo modello di società ma piuttosto dovremmo analizzare quali sono state le ragioni che – attenzione – ci hanno indotto a pensarlo. Ebbene sì, perché mi permetto di dire che la società, le persone e, soprattutto, i loro bisogni sono rimasti sempre gli stessi da anni e anni. Non siamo, quindi, di fronte a una società nuova ma semmai dinanzi a un processo filo economico-finanziario divenuto vincitore, che è entrato nelle menti delle persone e delle Istituzioni che li rappresentano.

Il cambiamento, a dire il vero, si può cogliere nei valori o meglio nel mutamento di quelle priorità che avevano permeato le Costituzioni europee del dopo guerra nei loro diritti fondamentali di solidarietà, inclusione ed emancipazione sociale. Le stesse Costituzioni che solo un anno e mezzo fa la J.P. Morgan definiva “troppo democratiche” perché poco aderenti a un sistema dell’economia e della finanza mondiale che richiede, se non anche esige, risposte rapide che non possono incappare nei pronunciamenti dei parlamenti o di qualsiasi altro organismo in cui si discuta. Senonché, detta così, questa rapidità rischia di diventare, se già non lo è, mera accettazione di quello che viene deciso da pochi che, il più delle volte, non hanno alcuna legittimazione democratica consegnata loro dai soggetti su cui ricadono quelle scelte. Esempi ce ne sono a bizzeffe, più o meno conosciuti, più o meno limpidi. Chiaro come il sole, tra questi, è il processo che l’Unione Europea ha intrapreso negli ultimi decenni. Si è deciso difatti di far prevalere le ragioni “mercatorie” della libera circolazione delle persone, delle merci e dei capitali su tutto e tutti, finanche spingendo e legittimando fenomeni sempre più diffusi di dumping sociale che hanno affievolito i diritti e le tutele dei mercati del lavoro nazionali.

In questo contesto, credo che il peccato originale si sia scontato nell’aver sovvertito un cammino d’integrazione europea che mirava, anche sulla spinta di tante pronunce innovative e propositive della Corte di Giustizia, a dare un senso compiuto alla cittadinanza europea, portando i cittadini degli Stati membri a riconoscersi in qualcosa di più grande che mano a mano si andava costruendo. Un sentimento di appartenenza che come stava sbocciando si è visto, sul più bello, recidere le radici da Maastricht, prima, dalla mancata approvazione della Costituzione Europea e dal trattato al ribasso di Lisbona, nel mentre, e dal Fiscal Compact per ultimo. Le ragioni di mercato, insomma, hanno avuto la meglio sulle ragioni dei diritti sociali e quel bilanciamento delle une con le altre, operato dalle Corti europee, si è smarrito nei meandri di qui nuovi valori – a mio modo di vedere le cose, li definirei “disvalori” – quali: efficienza, competitività, concorrenza, il tutto per raggiungere il “profitto”! Cosa sottacciono però questi mantra? Mi vien da pensare subito alla competizione, a una gara tra singoli cieca di fronte alle esigenze dell’altro che rappresenta solo un nemico, un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi. E quindi individualismo, in barba alla solidarietà, alla tolleranza, alla fratellanza e soprattutto all’inclusione. In sostanza, un tutti contro tutti. Ecco che così si è palesato negli anni un arretramento progressivo di un po’ tutte le forme di socialità. Il tutto sospinto dalla diffusione virale dei social che, per loro stessa natura, non solo hanno cambiato i modi della comunicazione riducendola a un post, a un tweet o una foto, ma hanno eretto un muro tra quelli che ne sono i protagonisti: le persone. È scontato che lo strumento informatico frapponga un filtro al confronto con l’interlocutore cui ci si rivolge e più si va avanti con le generazioni più il dialogo faccia a faccia diventa complicato, non fisiologico, quasi una novità. Esprimersi liberamente davanti all’altro diventa un esporsi al pericolo di giudizio mal accettato o di un difficile confronto con un’opinione diversa, che non ci si vuole sforzare di comprendere. La comprensione dell’altro e la mediazione degli interessi, in qualità di membri di una stessa comunità, rappresentava un forte momento di crescita che, invece, oggi si è smarrito in un abbandono all’apatia delle coscienze. L’aggregazione tra persone, ormai, si limita ai soli fini ludici, altrimenti vi è la sua distorsione nel mondo virtuale. Seppur è vero che gli strumenti informatici hanno reso possibili comunicazioni da un capo all’altro del mondo prima inimmaginabili e potenzialmente gratuite, il contraltare è stato che questo sistema è degenerato in un incontro di una miriade singoli soli davanti ad una tastiera. Questa individualità non porta se non alla solitudine, al disinteresse per una visione generale, all’odio verso l’altro che è diverso. Eppure la storia ci ha dimostrato come solo la coscienza “comune” fosse in grado di raggiungere grandi obiettivi in termini di benessere socio economico per tutti i consociati. L’individualismo genera abbandono e l’abbandonarsi a se stessi, senza mirare lo sguardo verso una prospettiva che emancipi gradualmente l’altro, quanto se stessi, non produce di certo risultati positivi nemmeno per il singolo, anzi. Di fatti il paradigma della concorrenza è stato il padre semmai delle aste al ribasso, uno su tutti: “posso produrre quanto Tizio percependo un salario inferiore”. Quella che prima era la lotta di classe, oggi è diventata una lotta tra poveri di cui se ne avvantaggiano solo i grandi centri di interesse economico finanziari mondiali. Come per la J.P. Morgan quelle Costituzioni rappresentavano un modello anacronistico, per tutta la dottrina neoliberale quelli che costituiscono i c.d. corpi intermedi raffigurano una spina nel fianco e per questo mano a mano vi è stato un continuo attacco a tutto ciò che era in grado di mettere insieme le persone facendole fermare a ragionare, dialogare, confrontarsi e a raggiungere mediazioni che guardassero al futuro e non all’immediato. È innegabile che questa offensiva ha sortito i suoi effetti e l’ha fatto in primo luogo riducendo drasticamente il perimetro dello Stato e del suo ruolo di garante dell’equilibrio e del benessere dei suoi consociati. Gli Stati hanno consegnato la loro sovranità economica a istituzioni sovrannazionali non democratiche, le quali hanno ben deciso di svuotare tutte quelle scelte intraprese nella seconda metà del secolo scorso che avevano rilanciato il potere d’acquisto e il benessere dei cittadini. È seguito così un taglio incessante e continuo ai servizi offerti alla comunità, che non ha fatto altro che aumentare le diseguaglianze e allontanare sempre più gli individui gli uni dagli altri. Come a livello sovrannazionale la politica è uscita perdente, stessa cosa è accaduta nel nostro Paese, dove mano a mano quei corpi intermedi che erano le strutture di partito si sono sempre più scollati dai loro rappresentati, chiudendo sedi e sostituendo ai confronti gli slogan, fino al punto che i partiti sono quasi del tutto scomparsi e a loro si sono sostituiti i leader. Ai valori delle singole ideologie si sono sostituiti gli interessi di una personalità, al posto di un simbolo quindi un nome e cognome. Ma come fa un partito a portare avanti una battaglia per dei diritti di qual si voglia natura, se basta una semplice sconfitta elettorale a cancellare quello stesso partito? In sostanza siamo rimasti soli e più deboli! Eppure in premessa mi sono permesso di dire che rispondere laconicamente o in maniera scontata alla domanda che ci stiamo ponendo non fosse del tutto corretto perché se lo Stato è arretrato, se la Politica potremmo dire che purtroppo ha fallito, tanti altri corpi intermedi, tante diverse forme di associazionismo hanno resistito e sono ancora qui dalla parte delle persone. E mi viene da pensare che se sono ancora qui forse non hanno tutte le ragioni quelli che tentano di inculcarci i dogmi della velocità delle decisioni, perché proprio quando si sono rinnegati questi metodi e strumenti democratici che reggevano fin dal primo novecento, si è dichiarata la propria resa. L’esserci chiusi in noi stessi ci ha portato ad avere paura di chiunque sia minimamente diverso dal nostro bagaglio di esperienze e non a vedere la diversità in un valore di crescita e arricchimento di quel bagaglio che ci portiamo dietro. Sì paura di esser soli, lasciati al proprio destino. Cosa che non appartiene in alcun modo a tutte quelle strutture associazioniste che fanno del senso di comunione, solidarietà e inclusione nel rispetto dell’altro un loro punto di forza.

La società che ci stanno imponendo potrà esser pur veloce ma demolisce non costruisce, separa non include, impaurisce non rassicura. E quale migliore esempio di resistenza a questi continui attacchi se non il Sindacato Confederale? Abbiamo dimostrato come, a differenza della politica, il sindacato abbia mantenuto alti livelli di rappresentanza e sia rimasto negli immaginari generali un luogo di garanzia dei diritti sul luogo di lavoro e non solo. È palese confrontando i dati elettorali tra l’ultima tornata politica e le recenti elezioni delle RSU nel pubblico impiego. La stragrande maggioranza dei lavoratori ha esercitato il suo diritto di voto e ha dato fiducia ai tre sindacati confederali.

Questo testimonia che quel modello, forse per alcuni arcaico, che riunisce organismi, che indice assemblee, che chiama a raccolta le persone funziona ancora e come! Anzi, proprio in quegli strumenti e in quei momenti di riunione le persone sentono la voglia di riconoscerci per sentirsi parte di un qualcosa di più grande e che abbia come orizzonte il benessere comune, da raggiungere insieme. Per queste evidenze, mi sento di dire che dovremmo ripartire proprio dal senso dello stare insieme per il bene comune e dall’idea di uno Stato inteso come comunità inclusiva, tollerante e solidale, vicina a chi è più in difficoltà. Senonché per farlo abbiamo bisogno di strumenti democratici che ricreino una coscienza comune e che mettano al centro la persona, come sempre hanno fatto quei corpi intermedi che qualcuno aveva messo, e continua a mettere, nel mirino. Salvaguardiamo la dignità e la funzione di quelli rimasti saldi e rilanciamo quelli caduti in disgrazia.

La competizione esasperata ha allontanato le persone e ha peggiorato la vita di tutti i giorni, solo insieme, fianco a fianco, è possibile trovare le risposte allo stato di bisogno della nostra collettività.

*Segretario Confederale UIL