LA SORELLA DEL TRIUNVIRO

…e altre mazziniane durante e dopo la Repubblica Romana – di Marco Marinucci

Nel 1868, anno della sua morte, Elena Montecchi Torti veniva così commemorata da Monsignor Francesco Fabi Montani:

Rifacendomi ora a parlare della nostra poetessa avvertirò, che sebbene la vita di quelle donne che seguirono le arti belle e le muse non sia stata per ordinario priva di vicende, di avventure e di aneddoti assai curiosi e talvolta disgraziati, tuttavia quella della Torti fu sempre pacifica, e nulla ebbe mai di straordinario[1].

Dalle parole del religioso, che, pure, aggiunge a tal riguardo: “Esilio di congiunti, morte de’ genitori, perdita di fratelli e sorelle, ospitalità tradita, lingue malediche ed ingrate”[2], appare un’immagine assai diversa da quella che emerge ripetutamente dai rapporti politici e riservati della polizia pontificia, riguardanti proprio la sorella del cospiratore e triunviro Mattia Montecchi.

Discreta poetessa, terza di nove figli, Elena Montecchi nasce a Roma il 18 agosto 1814, dall’avvocato Niccola Montecchi e da Rosa Colangeli. Proveniente da un’agiata famiglia, ben inserita nei quadri dell’amministrazione pontificia (Niccola Montecchi ricoprirà la carica di governatore di Sezze e Poggio Mirteto, come anche quella di direttore di polizia a Bologna), per gli obblighi lavorativi del padre, Elena trascorre gli anni della giovinezza in varie parti dello Stato, trattenendosi, in particolar modo a Monte Marciano, provincia anconetana. Nel 1833 torna nella Capitale, ricongiungendosi alla nonna materna, Laura Croce[3]. In questo periodo, Montecchi intensifica lo studio della lingua italiana e dei classici, dedicandosi anche alla lingua francese e all’inglese. Rimasta orfana della madre, nel 1837, e di lì a poco anche del padre; inizia a insegnare alla elite della nobiltà romana, acquistando ben presto una certa notorietà[4].

Nel 1838, dopo aver pubblicato una raccolta di poesie, riesce prima ad entrare nel circolo dell’Arcadia, col nome di Fillide Idalia[5], poi nell’accademia Tiberina; tutto questo, mentre il fratello Mattia assumeva un ruolo di primo piano nell’ambiente della carboneria.

Il fratello di Elena Montecchi, Mattia Montecchi che fu membro del Comitato Esecutivo e Ministro della Repubblica Romana del 1849

 

Nel 1845 viene data alle stampe una nuova pubblicazione della scrittrice, comprendente una raccolta di componimenti poetici dedicati alla principessa Guglielmina Boncompagni Massimo, dove i versi del sonetto Alle donne italiane si distinguono per i toni patriottici e risorgimentali:

Poiché natura di celeste riso / Le vostre alme sembianze rivestia, / Onde colla soave leggiadria / Fate di questa terra un paradiso,/ Quella beltà che vi risplende in viso / Di vile affetto guideron non sia; / Ma altrui scorgendo per la diritta via / Da voi l’alto valor faccia indiviso. □ Pensier vi prenda del natio paese / E le care virtù che spente or sono / Risorgeranno con le antiche imprese;  / Così ne andrete benedette, e bello / Di vostra fama fia che duri il suono / Vinto lo sdegno del destin ribello[6].

Nonostante gli onori e i riconoscimenti ottenuti, Elena inizia a disertare le riunioni arcadiche, fino all’abbandono definitivo del circolo.

Il 21 novembre del 1847 Elena sposa un facoltoso giovane romano, Augusto Torti. Nel frattempo, il fratello, dopo aver subito il carcere, beneficiando di un’amnistia, si era legato al comitato liberale, costituitosi per spingere il governo di Pio IX a maggiori riforme e alla guerra contro l’Austria. Guerra a cui Mattia Montecchi parteciperà, prima di tornare a Roma e prendere parte agli avvenimenti riguardanti la fuga del pontefice e la nascita della Repubblica Romana.

Nel 1848 Elena scrive per “La Donna italiana”, un giornale politico-letterario di stampo patriottico e interventista, dedicato a indurre le donne romane, sull’esempio delle lombarde e delle siciliane, a unire i loro sforzi a quelli dei combattenti per l’indipendenza nazionale”.

La bandiera della Repubblica Romana

L’anno seguente, caduta la Repubblica Romana, Mattia Montecchi, insieme ad Aurelio Saffi, troverà rifugio in Svizzera, costituendo, sotto la guida di Mazzini, un nuovo triunvirato, mentre a Roma rimarrà un piccolo gruppo fedele alla causa repubblicana e mazziniana, con diverse donne al suo interno: “Nulla di meno – si legge nell’Ebreo di Verona del gesuita Antonio Bresciani –, dopo tanta sconfitta, havvi donne in Roma così mazziniane, che si lascerebbero carpire sino alla cuffia di testa, per avere il contento di veder regnar in Vaticano il Mazzini in luogo del Papa”. Tra queste, sicuro punto di riferimento è Elena, che, incurante della nuova enciclica di Pio IX, fortemente critica verso le ambulanze femminili della Repubblica Romana[7], inizia immediatamente a prodigarsi nell’assistenza ai feriti, attirando su di se l’attenzione della polizia pontificia; come risulta dal seguente rapporto del 18 settembre 1849: “La sorella di Montecchi và per gli Ospedali somministra denari ed oggetti ai feriti: si trasportano in di Lei Casa i convalescenti e sostiene per quanto essa può, l’apostolato infernale presso le Donne”.

Nel 1850 il nome di Elena Montecchi compare primo in una lista inviata dal ministro dell’Interno al capo della polizia, “ove si contengono le notizie sul conto delle persone che in Roma tengono deposito delle Bibbie del Diodati, facente parte della Propaganda rivoluzionaria protestantica […] che danno in dono a quelle che si sottoscrivono al protestantesimo, le cui liste si conservano dalla Sig.a Montecchi”. Nel medesimo elenco figurano, oltre ai nomi di religiosi o ex religiosi, medici, insegnanti, tipografi e commercianti, insieme a quelli di altre donne quali le rispettive mogli del dottor Carlucci e del dottor Antonelli; la moglie dell’ex deputato mazziniano Pietro Sterbini; la figlia di Filippo Paradisi, Angela. Il rapporto, infine, si chiude avvertendo che “sarebbe opportuno sorvegliare la casa di una certa Nunziatina Ottaviani […] socia di altre donne, che girano attorno per la propagazione protestantica […]. Vi accedono in casa molti Repubblicani e vari deputati dell’Assemblea Costituente”.

Dopo la suddetta segnalazione faranno seguito diverse perquisizioni. In casa di Elena saranno trovate e sequestrate alcune pubblicazioni del fratello e altri libri, come anche alcune sue poesie; mentre in casa di Angela Paradisi, oltre a una sciabola, diversi manoscritti del padre e molte copie di un appello indirizzato “ai Cittadini della Repubblica Romana”.

Nel 1852 la poetessa, sempre impegnata nella causa repubblicana, compare nuovamente, insieme ad altre donne, nei rapporti della polizia:

 

Roma 29 settembre 1852

Io sottoscritto Ministro dell’Interno reputo opportuno rendere intesa che la [Carolina] Vitelli moglie di Serny, Elena Montecchi sorella dell’ex Triunviro, le sorelle Castellani sono incaricate delle Collette di sovvenzione pei detenuti, per gli emigrati, e per i condannati in titolo di opinione; che sono pure elette a tener viva la [illeggibile] dei repubblicani rossi contro i Re e contro i Sacerdoti, e che non agiscono che vocalmente e pensano di ampliare la loro iniqua missione.

Quindi, in pieno clima di “restaurazione”, continua a operare un certo numero di fedelissime alla causa del Genovese. Così fa Carolina Vitelli, moglie di Enrico Serny che “Alla triste occasione delle passate turbolenze, manifestò con impudente compiacenza il suo animo, e tutta adoperassi per assecondare quelle avventate cose fino ad assistere alle militari ambulanze, ed imprecare al ritorno della legittimità”.

Non dissimile sarebbe stata la reazione di un’altra irriducibile mazziniana, Santa Cadet, così ricordata in ambiente mazziniano, durante e dopo la Repubblica Romana:

Una donna ritenuta tra le più belle del suo tempo, si ostina a non prender marito, e, ciò malgrado, si serba illibatissima, come fu provato da persone ch’ebbero potere d’osservare da vicino la sua vita privata: ciò senza esser cattolica – e suoi sollazzi furono nel ’49 la fabbricazione delle cartuccie insieme alla madre per i prodi cavalieri della Repubblica, e poi le commemorazioni e le feste repubblicane; la sua gran vanità d’abbigliarsi fu sfoggiata solo nel ’49 quando godeva di andar per le vie coi capelli sciolti e col bellissimo capo giovanile […] adorno del berretto frigio; sua occupazione imbalsamar uccelli in qualche ora del giorno e in molte altre ore vagare per le vie di Roma a dispensar denari e cibo ai poveri e brodi agli ammalati per le stamberghe più luride del Ghetto e per gli Ospedali, lasciando ovunque una reliquia della sua fede. Sotto il capezzale – specifica Falco in una nota – dopo la sua visita e i suoi conforti, il malato trovava sempre o un opuscolo di Mazzini o una copia del Dovere, e quando questo giornale cessò, dell’Emancipazione.

Donne del Risorgimento

Come anche Galanti,

nepote del celebre Mariani. D’esse è delle più furenti del partito di Mazzini, e porta in giro i di Lui Proclami. Pochi giorni sono ne faceva circolare uno, nel quale si davano speranze di sicuro risorgimento. Era scritto di proprio pugno di Mazzini lo faceva leggere, senza però lasciarlo e senza permesso pure di copiarlo.

Inoltre nei rapporti della polizia compaiono le sorelle Castellani e Celestina Calandrelli, anch’esse dedite “a questuare per i Detenuti Politici”.

Toni ben più aspri riserverà invece il memoriale filoclericale di un cattolico che si firma “Osservator Romano”in polemica con un giornale progressista a sua volta critico verso l’enciclica di Pio IX (vedi nota) che aveva definito prostitute le donne volontarie facenti parte del sistema ospedaliero della Repubblica Romana:

[…] Il giornale [Il Nazionale] tolta isolatamente la parola meretrice si scaglia rabbiosamente contro l’Enciclica, e dice:

le meretrici delle quali si tratta sono quelle nobili dame, appartenenti per la maggior parte alle prime famiglie di Roma, e d’Italia, le quali per partecipare secondo le loro forze al gran movimento nazionale, eran divenute, abbandonando i loro palagi, altrettante vere suore della carità. Nelle corrispondenze di Roma di marzo e aprile 1849 si trova la precisione commovente delle cure ch’esse prodigavano senza distinzione d’opinione a tutti i feriti che inviava loro il campo di battaglia. E il Papa le chiama meretrici!

Noi distinguiamo l’atto pietoso dell’assistenza dalla individualità di chi lo prestava; e quanto all’atto noi ne saremmo, se il bisogno lo esigesse, i panegiristi, perché da chiunque sia prestato è un atto di pietà cristiana, buono in se stesso, e degno perciò della carità insegnata dall’ Evangelio. Ma considerando l’atto medesimo relativamente al ministero sacerdotale, è un fatto notorio che raro fu il caso in cui permettesse ai Sacerdoti di avvicinarsi al letto dei moribondi i quali cogli occhi spaventati e convulsi dal tuono del cannone che rimbombava ancora al loro orecchio, e più dalla tromba che’ li chiamava al giudizio, gli si andavano ripetendo in quegli estremi momenti evviva l’Italia. Ora si separi l’idea dell’atto pietoso e si considerino codeste donne che il National chiama, noi crediam per ischerzo, o per antifrasi vere suore della carità, e noi diciamo essere falso che fossero dame appartenenti alle primarie famiglie che lasciato avevano i loro palazzi per iscendere a quel pietoso officio. Mai no; non erano altrimenti dame romane: noi le conoscemmo, e le vedemmo con burbanza in abito nero con grenbiale bianco, e con rossa cintura passeggiar lungo le corsie col pugnale al fianco e tener le barriere fin dove era permesso al piede profano di giungere. Le nostre dame sono pietose, ma non ebber la fortuna di appartenere al collegio delle Vestali della cintura rossa, e del pugnale, e se il Nazional persistesse a sparegere rose su cotanta sozzura, noi saremmo costretti di pubblicare i nomi di codeste Eroine di male acquistata celebrità, perché il National potesse farne l’apoteosi nelle sue colonne […].

Tornando a Montecchi, dopo aver messo sotto sorveglianza la sua abitazione, la polizia pontificia verrà a conoscenza che “Elena Montecchi in Torti continua nei soli dì di festa a dare piccole accademie di canto in casa sua, e che dette società vengono formate da sconosciute persone, il maggior numero delle quali ritengonsi forestieri”.

Dal suddetto rapporto si può quindi dedurre che la poetessa romana tenesse uno di quei salotti letterari tipici proprio del periodo risorgimentale e del suo ambito cospirativo, nonché dell’immagine di una donna rinnovata, protagonista dei fermenti del suo tempo, prezioso sostegno della causa rivoluzionaria; come dimostra la seguente lettera di Mazzini a Elena:

Sorella mia,

Il latore, inglese, si reca in Roma, coll’oggetto di raccogliere dati intorno alla condizione vera delle cose e smentire di ritorno qui le continue stolte accuse del Times e d’altri giornali conservatori. Voi potete ospitarlo, e dargli contatti prudenti che lo informino. Amate sempre il

Vostro,

Giuseppe

Ricordatemi agli amici, e dite loro ch’io sarò dov’era prima tra un venti giorni; che venni qui per adoperarmi alle cose dell’Imp[resa] Naz[ionale].

Ed è anche probabile che tra quelle “sconosciute persone”, nell’ottobre del 1850, vi fossero Emilie Hawkes e Matilda Biggs, due tra le più fedeli discepole d’oltremanica di Mazzini. Infatti, in una lettera inviata a Hawkes l’Esule scriveva: “Pregate Montecchi di dare a Matilde e a voi, prima che partiate, un biglietto per sua sorella Elena, a Roma. Egli conosce il suo domicilio; e inoltre è meglio che voi siate presentata dal fratello”.

Quindi non sarebbe passato molto tempo prima che alla patriota venisse “ingiunto di astenersi da ogni pratica per li pregiudicati politici sotto pena di misure di rigore contravvenendo”.

Nonostante tutto, Elena continua per almeno altri due anni a ospitare e a essere parte integrante del sistema cospirativo mazziniano, visto che una nuova denuncia del 1854, “accertava che Elena Montecchi […] era l’organo per cui passavano le corrispondenze tra il Mazzini e i suoi aderenti in Roma”:

 

Roma 4 dicembre 1854

Riferiscono più fiduciari, che uno de’ sicuri veicoli pei quali passa la corrispondenza è quello di Elena Montecchi, sorella del Triunviro Mattia, il quale non lascia mai il grande agitatore dei disordini della misera Italia nelle sue peregrinazioni, trovandosi ora con esso in Ginevra.

Sostengono i medesimi referendarj che gli Stranieri specialmente Settari Svizzeri, che vengono in Roma ricevono notizie, ed anche denari col mezzo de’ loro satelliti in Roma per l’indicato canale.

La Montecchi è tanto sicura del fatto suo, che non con tali stranieri corrisponde direttamente, ma per mezzo di altre donne.

Costei ha in sua Casa, Collegio de’ Sabini al 2° Piano, sotto l’Orologio, che guarda il Cortile, ammobiliata una camera facendola dipingere del colore della Repubblica Rosso, ponendo a dritta il ritratto del Mazzini, ed a sinistra quello di suo fratello.

Infine nel 1859 Elena, insieme alla sorella Giulia, partecipa, presso il caffè Pennacchiotti, a una cena con molti “settari costituzionali”.

Negli anni successivi, le attività della cospiratrice vengono meno, sia per la sua salute sempre più cagionevole, sia perché Mattia, pur rimanendo sempre in buoni rapporti col Genovese, si sarebbe spostato, anche se solo temporaneamente, su posizioni più moderate.

Dopo diversi viaggi in Italia e all’estero, “che se non gioveranno all’invecchiato mio morbo, che non molto mi martirizza, saranno utili al mio spirito, né il mio consorte avrà del tutto gittato il denaro”, le condizioni di salute di Elena si aggraveranno, finché il 29 febbraio del 1868, circondata dal marito e dalle sorelle, morirà senza aver potuto rivedere il fratello esule.

 

[1] Francesco Fabi Montani, Elogio storico di Elena Montecchi Torti, in «Giornale arcadico di scienze, lettere, ed altri»,  Roma, Tipografia delle Belle Arti, 1868, vol. CCII della nuova serie LVII, p. 193.

[2] Ivi, pp. 197-198.

[3] Ivi, p. 184.

[4] Ivi, p. 185.

[5] Ibid.

[6] Elena Montecchi, Alle donne italiane, in «Poesie di Elena Montecchi», Roma, Alessandro Monaldi, 1845, p. 7.

[7] Nell’enciclica di Pio IX del 1849 si legge: “Apparve intero il piano del loro consiglio diabolico sì in altri luoghi non pochi, sì specialmente nell’alma Città, la Sede del Nostro Supremo Pontificato, nella quale, dopo costretti Noi a partirne più liberamente, sebbene per pochi mesi, furibondarono; e dove nel trasmettere con scellerato ardimento le divine ed umane cose a tal punto finalmente arrivò il loro furore, che turbata l’opera e sprezzata l’autorità dello specchiatissimo clero urbano e dei Prelati che ivi per Nostro comando impavidamente curavano le cose sacre, alcuna volta perfino gli stessi miseri ammalati che già lottavano colla morte, destituiti di tutti i sussidi della Religione, erano costretti esalare l’anima fra le sozze braccia di qualche procace meretrice”. Lettera Enciclica – di Sua Santità Papa Pio Nono –  Agli arcivescovi, vescovi e primati d’Italia – Data da Portici l’8 dicembre 1849 – Con osservazioni, Bologna, Tipografia Guidi all’Ancora, s. d., p. 3.