L’ECONOMIA ITALIANA STENTA ANCORA

Occorre coraggio e lungimiranza – di Rosario Altieri

A metà aprile sono stati diffusi i dati economici che riguardano il nostro Paese per il corrente anno e per il successivo. Sono questi dati che confermano quanto ci si attendeva in seguito alle previsioni che i diversi osservatori specializzati avevano nel corso dell’ultimo anno già anticipato e che non contribuiscono certo a ridurre le preoccupazioni per il futuro e ad ispirare fiducia nei cittadini e nelle imprese.

Il quadro che ne deriva è quello di un Paese che non riesce a liberarsi di quella zavorra che gli impedisce di riprendere il cammino verso una crescita sufficiente almeno ad impedire l’aumento del divario che lo allontana sempre più da quelli ad economia avanzata.

Un Paese alle prese, contemporaneamente, con un insieme di criticità la cui concomitanza renderebbe molto più problematico ogni tentativo di risanamento dei conti pubblici e di rilancio dell’economia anche se riuscissimo ad avere un Esecutivo disponibile a governare in ragione degli interessi dei cittadini, delle famiglie e delle imprese pervenendo a scelte politiche magari impopolari ma assolutamente necessarie e non preoccupato soltanto di conseguire il consenso degli elettori.

De Gasperi diceva: “un politico agisce pensando alle prossime elezioni, uno Statista alle future generazioni”. Il vero problema dell’Italia è che non si scorgono Statisti all’orizzonte e la classe politica risulta sempre meno adeguata a far fronte alle sfide.

Veniamo ai dati: il Governo aveva previsto per il 2017 una crescita del PIL dell’1%; alcuni osservatori internazionali lo 0,8%; le stime vengono ora corrette allo 0,7%; analoga previsione viene fatta per il 2018.

La semplice lettura di questi dati potrebbe indurci a pensare che un risultato del genere per una economia che è uscita dalla recessione soltanto da un paio di anni possa considerarsi in decisa ripresa, in salute e pronta a far registrare negli anni immediatamente prossimi performance certamente più apprezzabili.

Pensare ciò, però, sarebbe sbagliato per diversi motivi sui quali ci siamo intrattenuti in diverse altre circostanze e che credo sia opportuno ricordare in prossimità della discussione che nelle Istituzioni e nel Paese si apre in occasione del dibattito sul DEF recentemente approntato dal Governo nazionale.

In primo luogo, sarebbe molto incauto dimenticare che l’intera area dell’euro si sta avvalendo, almeno fino al 2018, delle politiche finanziarie poste in essere dalla Banca Centrale Europea e fortemente volute dal suo numero uno, Mario Draghi.

Risulta sufficientemente agevole immaginare quali sarebbero stati i risultati per molti Paesi, tra i quali l’Italia, senza questi massicci interventi. Pensiamo soltanto all’acquisto da parte della BCE dei titoli di stato con i quali vengono rifinanziati i debiti pubblici di una serie di Nazioni.

In secondo luogo, la difficoltà atavica di tenere sotto controllo i conti pubblici, con la conseguenza di non riuscire a contenere il debito pubblico italiano, di gran lunga il più elevato tra le economie europee e occidentali ed ancora attestato a circa il 133% del PIL.

In terzo luogo, deve preoccuparci non poco la circostanza che l’economia italiana è quella che cresce meno di qualsiasi altra all’interno dell’eurozona, mentre, proprio per l’elevato debito pubblico, l’Italia avrebbe la necessità che essa procedesse con passo assolutamente più spedito.

Non deve essere considerato allarmante il differenziale di crescita tra l’Italia ed i Paesi dell’Est europeo, tenuto conto della condizione di partenza di questi ultimi; viceversa, ciò che deve maggiormente preoccupare è quello che si registra tra l’Italia e la Francia, che già presenta risultati non pienamente soddisfacenti; quello con la Spagna, che ha ormai da tempo acceso la freccia ed operato un sorpasso che solo qualche anno fa sembrava altamente improbabile; quello con la Germania che, pur contenuto, determina un ulteriore allargamento della forbice.

L’Italia cresce ad un ritmo che risulta meno di un terzo di quello greco, le cui previsioni per il 2017 indicano un aumento del PIL pari al 2,2%.

Tutto ciò basterebbe ad incutere il panico fra gli esperti, gli operatori economici ed i semplici cittadini. Ma c’è un elemento ancor più preoccupante da tenere in considerazione: la scadenza dei termini per le clausole di garanzia che, con molta e colpevole leggerezza, sono state poste a fronte di previsioni di entrata che apparivano già all’epoca sufficientemente improbabili, per usare un eufemismo.

Ci sarà quindi, tra qualche mese, da recuperare le mancate entrate per importi assolutamente rilevanti, il che renderà insufficiente la manovra, pur significativa, di circa 4 miliardi prevista dal Ministro Padoan e necessari interventi correttivi molto più dolorosi.

È questa la situazione in cui versa la nostra economia, che presenta, come è possibile constatare, patologie molto gravi e non semplici raffreddori da poter combattere e debellare con banali antibiotici.

Occorre il coraggio di smettere, così come tante altre volte ho auspicato, di parlare agli elettori per carpirne il consenso.

Questo rischio, nei prossimi mesi, è tanto più presente se si pensa che tra meno di un anno saremo chiamati alle urne per eleggere il nuovo Parlamento e l’irresponsabilità dei protagonisti della battaglia elettorale sta già determinando su questo versante una serie di posizioni per niente coerenti e compatibili con le necessità avvertite dal Paese e dallo stato della sua economia.

Occorre recuperare il coraggio di tracciare un percorso che non abbia come meta il successo elettorale, che sappia spiegare alla gente qual è il vero interesse di ciascuno e dell’intera collettività, che individui ed annunci i sacrifici ai quali realmente dovremo far fronte per invertire la rotta che ci sta conducendo verso il baratro.

Occorre sperare di trovare statisti che affrontino con coraggio e con determinazione le gravi condizioni del nostro Paese e recuperino una prospettiva per le generazioni future che la dabbenaggine, l’incompetenza, l’insensibilità, l’impreparazione di una classe dirigente da troppo tempo dedita all’utilizzo del potere per costruire consenso hanno reso sempre più fosca.

Il problema, ancora una volta, non risiede nella scelta tra una politica di rigore ed una politica improntata ad una maggiore flessibilità.

Il problema non si risolve, come più volte abbiamo avuto modo di accorgerci, con una politica di redistribuzione più equa.

Necessitano risorse per investimenti produttivi e la loro ricerca risulta incompatibile, nel quadro tracciato in precedenza, con maggiori flessibilità.

Per distribuire ricchezza occorre che essa venga prodotta; per produrla è necessario investire: senza questa semplice combinazione, sarà difficile costruire un futuro meno preoccupante.