RATING

Tra realtà e credibilità – di Francesco Pontelli*

Da anni le agenzie che si occupano di rating internazionali risultano assolutamente inadeguate anche rispetto alla semplice valutazione dei conti fondamentali dello Stato come delle società. L’ultimo caso del miglioramento del rating italiano (un fatto comunque importante che avrà delle influenze positive in relazione al costo del servizio al debito sui mercati finanziari per l’Italia) tuttavia lascia molto perplessi in relazione alla individuazione dei parametri che vengono utilizzati per arrivare a simili valutazioni finali. Paradossale poi anche perché l’aumento del rating
italiano da parte di Standard & Poor’s avvenga contemporaneamente alla richiesta di maggiori delucidazioni sui conti italiani relativi al 2018, ma anche al 2017, da parte della Unione europea.

Logica conseguenza vorrebbe che evidentemente l’analisi di Standard & Poor’s si basi su valutazioni e parametri fondamentalmente diversi da quelli dell’Unione Europea, che confermano una diversa conoscenza della situazione economica attuale italiana.La crescita economica italiana, che dovrebbe confermarsi all’1,4/1,5% di aumento del Pil, nasce sostanzialmente da due fattori, il primo esogeno, il secondo essenzialmente fiscale. La grandezza delle PMI italiane infatti viene costantemente dimostrata dal risultare parte integrante attraverso i propri beni intermedi di complesse filiere estere che permettono l’esportazione del 100% della produzione.

Contemporaneamente però le quote di mercato dei nostri asset industriali di riferimento (le filiere italiane nel loro complesso sono espressione del made in Italy con l’unica esclusione del settore metalmeccanico) vedono la componente italiana perdere quote nei mercati internazionali.La seconda motivazione che vede questa crescita italiana, come accennato all’inizio, risulta attribuibile ad una politica fiscale o meglio ad una strategia fiscale del governo. La deducibilità fiscale legata all’innovazione dell’industria 4.0 come i super ammortamenti, soprattutto per le realtà grandi e non le Pmi (si ricordi che queste ultime rappresentano il 95% del patrimonio industriale italiano), hanno dato un impulso notevole ma sicuramente a “tempo determinato” agli investimenti.

Questa politica ha determinato di conseguenza una forte accelerazione alla crescita per quelle imprese che producono beni strumentali e tecnologici. Inoltre emerge chiaramente come la pressione
fiscale rappresenti il vero problema del sistema economico italiano in quanto una semplice deducibilità maggiore di costi e di investimenti scatena il mondo industriale. Tuttavia va ricordato che la ricaduta economica reale risulta molto parziale in quanto si continuano a privilegiare fiscalmente beni strumentali per le grandi imprese mentre per quanto riguarda il restante panorama industriale delle PMI, che esportano molto spesso filiere intere, non si studia nessun tipo di agevolazione fiscale.Risulta evidente anche in questo contesto quanto la pressione fiscale sia
diventata un elemento insopportabile per il sistema economico italiano.

Inoltre il costante continuo calo dei consumi registrato a luglio e ad agosto, nonostante l’invasione i turisti stranieri, dimostra ancora una volta come questa pseudo ripresa economica non coinvolga minimamente i cittadini i quali continuano a diminuire il livello dei propri consumi. Se poi a questo si aggiunge anche l’incremento del credito al consumo emerge evidente come ormai anche il ricorso al credito venga utilizzato per pagare bollette o mutui. Se poi invece si volesse passare alla qualità della occupazione si ricorda come nel 2015, l’anno di massimo vantaggio del Jobs Act al netto delle rinegoziazioni dei contratti in essere, il numero di posti di lavoro creati fosse inferiore a quello addirittura del 2014. Gli anni successivi hanno visto un rallentamento del
vantaggio previdenziale ma sempre completamente a carico della fiscalità generale.

Alla fine poi si arriva a determinare come di questi contratti solo il 25/26% viene rappresentato da contratti a tempo indeterminato, mentre gli altri sono contratti a chiamata o ad intermittenza. In
più, nel novero delle persone occupate, l’Istat considera lavoratore occupato una persona che venga chiamata una volta la settimana a lavorare per un’ora: allora emerge evidente come questi numeri degli occupati non possano che risultare assolutamente indicativi del protrarsi di una crisi economica della quale non si vede ancora l’uscita. In questo contesto infatti mancano ancora 13 punti percentuali di PIL rispetto al 2007.

Se poi si volesse porre l’attenzione anche nel medio periodo con la diminuzione del quantitative easing unito all’esplosione del debito pubblico di oltre 313 miliardi dall’avvento di Monti ad oggi ed alle turbolenze internazionali che vedono il nostro spread costantemente 60 punti superiore alla Spagna viene da chiedersi quale possa essere lo scenario di maggior ottimismo che abbia spinto all’aumento del rating. Senza dimenticare ovviamente come l’incertezza politica venga valutata, in connessione col dimezzamento del quantitative easing, di circa 100 punti di spread aggiuntivi. Invece Standard & Poor’s ignora allegramente questi fattori, dimostrando (ed in questo alleggerendo la posizione italiana) che il declino culturale non riguarda solo l’Italia ma anche la massima espressione delle agenzie internazionali.

 

* Economista