LA POLITICA COME MISSIONE: NELLE ISTITUZIONI E NEL PRIVATO

di Alberto Mario Ermelli Cupelli

–  Quando l’amico Iperide Ippoliti mi ha proposto di scrivere un breve ricordo di mio padre per il Lucifero non ho avuto esitazioni, nonostante il poco tempo a disposizione, perché penso che a dieci anni dalla morte fosse arrivato il momento di tributargli un omaggio dalle colonne del giornale che ha contribuito a fare vivere nei decenni passati, simbolo del repubblicanesimo nelle Marche.
Un repubblicanesimo, da non dimenticare, se non rivoluzionario sicuramente a carattere molto radicale.
Il mio dovrebbe essere il ricordo di un figlio, lontano quindi dalla ricostruzione dell’Ermelli “politico” che è bene competa ad altri; eppure, come si può scindere, in chi è stato Repubblicano e Mazziniano, la vita privata da quella pubblica.
Ricordo che da piccolini, con mia sorella, avevamo tra i nostri giochi un mangiadischi, come si diceva allora, nel quale avevamo la possibilità di suonare tre dischi: l’Inno di Mameli, Bella ciao e Quel mazzolin di fiori; come a dire: la Patria unita, luogo del cuore e non dell’etnia, finalmente Libera e Repubblicana e l’amore e l’attenzione verso la natura e l’ambiente.
Era evidente in lui quel principio per cui il carattere libertario delle scelte private ed il rigore morale delle scelte nella vita all’interno della “polis” si sposano perfettamente nel nome della Democrazia Repubblicana.
Come si può pensare che chi ha vissuto la sua vita politica come una missione e un percorso pedagogico, continuamente diviso tra l’elaborazione intellettuale e l’azione nelle Istituzioni nella sua lunga storia di amministratore, non portasse questo se stesso anche
a casa? Fortunatamente, diciamo noi oggi.
È stato un laico e come tale anticlericale ma solo con i clericali, cui non riconosceva il diritto di intromettersi nelle coscienze altrui sui grandi temi che coinvolgono l’essenza della vita delle persone.
È stato uomo dei “lumi” ma non indifferente alla dimensione spirituale. Nostra madre, donna di straordinaria forza ed intelligenza, provenendo da una famiglia molto credente, ci raccontava – in quel periodo erano fidanzati – che una volta gli chiese se veramente lui
fosse un ateo mangia preti come allora si descrivevano i repubblicani.
Passeggiavano in quel momento a Fermo, in viale Vittorio Veneto dal quale si può scorgere uno dei paesaggi più belli delle Marche: le verdi colline del fermano che lentamente salgono verso la catena appenninica dei Sibillini, quei Monti Azzurri che contribuirà a valorizzare con la sua attività politica.
Lui si fermò, guardando quel paesaggio, e le rispose che tanta armonia e bellezza potevano essere solo il frutto di un’intelligenza di carattere superiore e non del caso. La questione non fu più ripresa.
Non si professava credente ma nemmeno ateo, riconosceva un carattere divino all’essere umano che non si sostanzia nell’adesione ai precetti
dogmatici, quanto nella pratica di quei valori positivi: la tolleranza, la temperanza, la ricerca dell’armonia, che edificano l’Umanità, con umanità.
Anche per questo fu sempre uomo del dialogo e del compromesso, come mezzo mai come fine.
È stato un democratico o come avrebbe detto lui, soprattutto negli ultimi anni precedenti alla malattia, un “democratico integrale”. A mio parere, era il suo modo per scacciare la profonda amarezza per un Partito che nonostante la sua storia, che pure non era sempre stata tranquilla e lineare, si era dissolto a destra dopo avere sbandato a sinistra.
Lui che era cresciuto nel solco della lezione politica e del rigore nella gestione della cosa pubblica del repubblicanesimo storico di Giovanni Conti ed Oronzo Reale, suo padre politico; che era stato europeista sin dai primi anni ‘50, riconoscendo nell’Europa politica la via maestra per l’edificazione ed il rafforzamento di una moderna democrazia italiana; che aveva condiviso e sostenuto la direzione impressa al Partito da Ugo La Malfa, cui riconosceva il merito di avere definitivamente traghettato il Partito dall’Ottocento al Novecento attraverso l’apporto culturale e politico di Giustizia e Libertà e del Partito d’Azione, per creare un Paese moderno nel quale, al modo mazziniano, i ceti produttivi allora emergenti diventassero insieme al mondo del lavoro e della cooperazione, cui fu profondamente legato, l’ossatura della democrazia italiana.
Una democrazia in continuo, progressivo allargamento, per dirla con un’espressione fortunata cara al dialogo Moro-La Malfa.
Con questi presupposti, non si poteva dire favorevole ad un approccio ondivago, moderato, conservatore o addirittura reazionario ai problemi dettati dallo sviluppo di una democrazia avanzata, e non lo fu.
Ha creduto, abbiamo creduto, nel Partito della Democrazia tratteggiato da Giovanni Spadolini negli ultimi anni della così detta prima repubblica.
Un partito che fosse garanzia di fedeltà alle Istituzioni Repubblicane e rappresentasse la cerniera tra le forze democratiche, laiche e cattoliche, ed il mondo della sinistra. Purtroppo, Spadolini se n’è andato presto, troppo presto lasciando un vuoto politico e culturale
di dimensioni enormi, del quale mio padre si rese subito conto. Ha vissuto l’esperienza dell’Ulivo con quella prospettiva, che ragionevolmente poteva essere il lievito e il modo di essere del centrosinistra italiano.
Sappiamo bene come sono andate le cose, una fusione a freddo tra tradizioni politiche che per le loro caratteristiche avrebbero avuto bisogno di un apporto repubblicano. Non ci hanno apprezzato? Non siamo stati capaci di farci apprezzare? Non è questo il luogo per discutere di questo.
Fra l’altro, se un po’ l’ho conosciuto, la cosa non lo avrebbe appassionato, anzi. Per lui che aveva fatto su e giù per le Marche con un Partito all’1,5% dei consensi, questo non poteva costituire un problema. La questione deve essere politica, come amava ripetere, attiene alla qualità e serietà della proposta politica, non altro. Questo è stato Enrico Ermelli: un uomo tenace e buono, un esempio.