L’ATTUALITA’ DELL’EUROPA

Nel 60° dei Trattati di Roma riscoprire le radici umanistiche e pacifiste dell’idea europea

– di Renzo Repetti *

 

Riflettere oggi sul ruolo dell’Europa può apparire attività obsoleta o mero divertissement accademico. I segnali che provengono da più parti non sono a dire il vero incoraggianti: dai muri eretti in difesa di migranti che cercano riparo dalla guerra, alle idee di “exit” di cui la “Brexit” che si è realizzata è probabilmente soltanto un primo esempio.  Celebrare oggi il sessantennio del Trattato di Roma può apparire ancor più paradossale: da quel Trattato nacque la CEE, prese corpo cioè l’Europa del libero scambio, quell’aspetto “economico” dell’Europa che finì, come sappiamo, col prevalere sugli stessi intenti dei firmatari del Trattato. Ad essere critici (e forse ottusamente critici) si potrebbe sostenere che stiamo celebrando l’origine della crisi economica che ci attanaglia, l’origine di una politica fondata sugli spread, l’origine dell’impoverimento delle regioni più deboli del Continente, l’origine delle diverse incapacità dimostrate dall’Europa nel far fronte alle tante sfide che da sessant’anni si frappongono a un suo armonico sviluppo.

Ed alcune critiche sono purtroppo sensate. Ne potremmo riempire intere pagine. Certo, al libero scambio delle merci si è finalmente affiancata la libera circolazione delle persone. Ma la prima non è mai stata messa in discussione a differenza della seconda: qualsiasi minaccia reale o ipotetica è ormai sufficiente a sospendere le clausole del Trattato di Maastricht. Inoltre la libera circolazione delle persone non è ancora sfociata nell’integrazione culturale, eccezion fatta per un’integrazione basata sull’omologazione a modelli dominanti, piuttosto che in un’integrazione che dovrebbe partire dal rispetto delle differenze per raggiungere l’unità. Ne sanno qualcosa tanti popoli europei nei più svariati ambiti: non solo i Greci che hanno perso il lavoro in tributo alle norme del rigore tedesco, ma anche i Francesi che devono addirittura stabilire leggi in difesa della lingua per arginare la colonizzazione linguistica da parte dell’inglese (en passant, ormai lingua extraeuropea) oppure gli Italiani che vedono continuamente minacciati i loro prodotti agricoli ed alimentari dalla implacabile concorrenze intraeuropea.

Ad essere davvero critici si potrebbe quasi pensare che anche la libera circolazione delle persone ha avuto un solo scopo economico: l’acquisto di beni e servizi ma soprattutto la mano d’opera a basso costo di cui hanno usufruito tante aziende dell’Europa “originaria” grazie al cosiddetto “allargamento”.

Potremmo continuare, in un virtuale cahier des doléances che potremmo scrivere addirittura “wiki”, cioè in maniera cooperativa.

A ben vedere si tratterebbe tuttavia di un’operazione abbastanza sterile.

 

La domanda vera che occorre porsi è piuttosto un’altra. Partendo da un rovesciamento prospettico, bisogna chiedersi: come sarebbe oggi il mondo (e il nostro mondo) senza Europa?

 

Chi scrive è convinto assertore della naturale bontà dell’essere umano. E’ insomma uno strenuo oppositore delle tesi hobbesiane, giacché è un inguaribile utopista.  Tuttavia è anche persona dotata di ragione (almeno così spera). Sa dunque che nell’attuale sistema internazionale sono ancora prevalenti i meccanismi di machtpolitik, la “politica di potenza”,  sa che l’attuale sistema economico è fondato ancora (anche se non è più di moda dirlo) sullo sfruttamento dei molti da parte dei pochi. Sa che il “realismo” politico, lungi dall’essere l’unica realtà possibile, è tuttavia ancora molto forte. Date queste premesse gli scenari ipotizzabili in assenza dell’Europa non sono rosei. Stati (non necessariamente nazioni) ostili gli uni gli altri più di quanto lo siano ora, coinvolti in aggregazioni regionali atlantiche, asiatiche o mediterranee che lacererebbero quell’innegabile e originaria unità, riproponendo su scala ancor più vasta medesimi limiti e medesime criticità.

E allora la storia ancora una volta ci può venire in soccorso. Occorrerebbe riandare alle origini del pensiero europeista e federalista, iniziare da lontano senza accontentarsi di partire da una tappa intermedia come può essere, appunto, il trattato del 1957. O, meglio, utilizzare le celebrazioni “intermedie” non come fini a se stesse, ma piuttosto per capire, per comprendere spassionatamente ciò che ha funzionato e ciò che non ha funzionato. In altre parole per misurare lo scarto tra ideali e realizzazioni ed aggiustare la mira. Occorre ripensare, riflettere, soffermarsi sulle idee libere che hanno caratterizzato il faticoso percorso della creazione dell’Europa. Non basta, mi sia consentito, un’unica riflessione, pure importante, sulle sue “radici cristiane”.

Il Trattato del ’57 ha origini lontane, soprattutto nel delizioso preambolo che richiama i valori di libertà, uguaglianza, fratellanza e solidarietà sui quali si incardina la nostra comune cultura. Origini che potremmo già rintracciare nel primo pensiero umanista e pacifista dei secoli XVI e XVII di Erasmo da Rotterdam, di Éméric Crucé e soprattutto di Comenio che nella Panegersia (1645) scriveva della “nostra patria europea” paragonandola alla “nostra comune imbarcazione”. Fino al pensiero laico dell’Ottocento (non a caso oggi misconosciuto), della Giovine Europa di Mazzini, delle “nazioni sorelle” di Garibaldi. Fino al manifesto di Ventotene, ad Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi il quale intravvedeva gli Stati Uniti d’Europa come tappa verso la creazione degli Stati Uniti del Mondo.

Erano scevre, queste espressioni di questi padri del pensiero europeo, da preoccupazioni economiciste. Vi era prevalente piuttosto la visione di un uomo nuovo che doveva librarsi sui meri interessi “materiali”, proiettarsi con la forza dell’intelletto e della ragione verso lidi nuovi dove l’altro da sé era incluso e non escluso, sebbene consapevolmente differente.

Questa la via da riprendere, con fatica, con costanza e con passione. Questa la via da additare alle giovani generazioni, riappropriandoci dell’orgoglio di un pensiero, alto, libero e forte.

 

* Università degli Studi di Genova