L’Italia tra le pochezze attuali ed i fulgidi esempi del passato

Tracciare un bilancio, seppure incompleto e con il rischio di contaminazione di alcuni pensieri e/o convincimenti personali, dell’anno appena chiuso mi appare impresa ardua nonché foriera di conseguenze affatto positive sulle condizioni del morale di ogni italiano, per fermarci alla sola nostra realtà.

Anche per quello che scriverò di seguito vale ciò che in tante altre circostanze ho premesso: le valutazioni e le riflessioni che avanzerò in questo mio scritto non intendono rappresentare un giudizio su quella o quell’altra parte politica che, per quanto mi riguarda, sono tutte egualmente responsabili dello sfascio verso il quale sembra avviata l’Italia, le Sue Istituzioni, la Sua economia e la coesione  sociale, che appare sempre più un miraggio irraggiungibile.

Il 2016 si è snodato con tutte le insufficienze e le criticità proprie degli anni che lo hanno preceduto ed i risultati che faranno parte delle statistiche ci consegnano la fotografia di un’Italia più divisa, di un Governo che, a prescindere dalla sua composizione e dalla sua guida, risulta inevitabilmente meno autorevole, di un Parlamento che appare sempre meno legittimo, di una classe politica alla ricerca di scelte che garantiscano la propria sopravvivenza che, a sua volta, rischia di rivelarsi l’antitesi di quanto occorre al Paese per uscire dal pantano nel quale è stato fatto precipitare.

Al netto di qualche decimale in più o in meno che, a seconda della provenienza partitica, i diversi responsabili ed osservatori ci forniscono, l’Italia può certamente affermare di essere tecnicamente fuori dalla lunga e profonda fase di recessione in cui è vissuta negli ultimi anni. Ciò non è, però, sufficiente ad attenuare i timori per il futuro, stante il differenziale di crescita che la separa da quei Paesi che hanno ripreso a camminare con speditezza e, in alcuni casi, a galoppare.

Nonostante i tanti proclami di vittoria contro il mostro della disoccupazione, gli indici dei rilevatori più attenti ci presentano una situazione nient’affatto tranquillizzante con percentuali di senza lavoro ancora altissime, ma soprattutto con un livello esplosivo di disoccupati nelle aree più povere del Paese (Mezzogiorno in particolare) e nelle fasce più deboli della popolazione (giovani e donne).

Se sommassimo l’occupazione che i vari Governi che si sono succeduti nei decenni hanno dichiarato di avere prodotto con le loro “oculate e miracolose politiche attive per il lavoro”, dovremmo trovarci, oltre ad avere assicurato una occupazione a tutti, nella necessità di reperire, in tutti i campi di attività, forza lavoro dall’estero: la situazione, però, non sembra essere esattamente questa.

I rapporti tra le diverse “fazioni” politiche sembrano somigliare a quelli che, probabilmente, potrebbero essere vissuti in Paesi nei quali non si sia mai affermata la democrazia e non sia mai stato possibile esercitare, nemmeno, le libertà più elementari.

La stabilità viene interpretata non come un normale avvicendamento tra diversi schieramenti che, pur con visioni altrettanto differenti, perseguano tutti, come pure dovrebbe avvenire, l’interesse supremo della Nazione ed il bene comune, bensì come l’affermazione del proprio predominio a prescindere dagli strumenti che vengono utilizzati.

Si è persino giunti, in epoche e con maggioranze diverse, a pretendere di cambiare le regole del gioco a colpi di maggioranza, come se la democrazia e le Sue regole fossero un intralcio da eliminare per una governabilità che non si capisce chi debba servire e tutelare.

È capitato più volte che riforme costituzionali che si è preteso di varare con i soli voti che, pur rappresentando la maggioranza del Parlamento, non rispecchiavano la maggioranza del Paese, in ragione dei consistenti premi elettorali tali da determinare un numero sproporzionato di legislatori scelti dai Partiti e non dal popolo, siano state da quest’ultimo sonoramente bocciate.

Può piacere o meno, ma in una democrazia parlamentare la sovranità spetta al popolo e solo il popolo la può delegare con il suo voto diretto.

Si è altrettanto ripetutamente affermato che basterebbe approvare riforme per far ripartire il Paese; e questo lo si è affermato a prescindere dalla qualità delle riforme stesse, a prescindere dalla bontà di ciò che si eliminava e soprattutto dalle regole che si introducevano.

Sono state approvate leggi di riforma in materia di mercato del lavoro che sono state presentate come il toccasana di tutti i mali, senza che esse siano state di fatto in grado di creare occupazione aggiuntiva e qualitativamente apprezzabile.

In alcuni casi, la virtuosa stabilizzazione del precariato è passata attraverso la precarizzazione (mi scuso per il bisticcio di parole) di una occupazione precedentemente stabile (un insegnamento esemplare lo si può ricavare dalle vicende che sembrano essere accadute nei rapporti tra il gruppo INALCA ed alcune cooperative e consorzi che sono stati costretti a licenziare lavoratori stabili per presumibili inadempienze contrattuali delle società del gruppo Cremonini).

Altri esempi potrebbero essere citati per comprendere come non sia sufficiente cambiare le regole per migliorare le cose; per raggiungere questo obiettivo, bisogna sostituire regole superate con altre che migliorino i rapporti tra Stato e cittadini, tra la Pubblica Amministrazione ed il Paese, tra le imprese, tra le imprese ed i lavoratori, tra tutti i cittadini. E poi bisogna che queste regole vengano applicate ed è necessario vigilare sul loro puntuale e non mistificato rispetto.

Occorre pretendere che la politica prenda coscienza dell’esigenza di aprirsi al nuovo, di non essere ancorata a vecchi schemi ideologici e di provare a costruire un confronto in cui si misurino progetti e programmi che siano in grado di fare avanzare la società e non alimentare scontri che si consumino in ossequio a schemi ormai appartenenti al passato.

Proviamo per una sola volta a superare vecchie, consunte ed arcaiche categorie: sinistra e destra, riformisti e conservatori.

L’appartenenza ad una o all’altra di queste categorie non rileva un requisito migliore o peggiore di coloro che vi fanno riferimento, dei partiti che vi si ritrovano o affermano di ritrovarvisi.

Per quanto riguarda la prima dicotomia, non è confutabile dire che essa appartenga ad un passato ideologico di cui non si avverte, o quantomeno non si dovrebbe avvertire, alcuna nostalgia (badate bene “passato ideologico”, nulla a che vedere con gli ideali ed i valori che dovrebbero essere alla base di ogni nostro “pensiero” e di ogni nostra “azione”).

Per ciò che concerne la seconda, la differenza in meglio o in peggio è data da ciò che si vuole riformare; si tratta di valutare se le riforme che si intende introdurre nell’ordinamento migliorino o peggiorino lo stato delle cose e si tratta di stabilirlo attraverso l’utilizzo dello strumento democratico, consentendo al popolo sovrano di esprimersi dopo essere stato erudito puntualmente sul contenuto dei provvedimenti e non sulle ripercussioni che il voto può avere sugli equilibri partitici, sui quali vi sono sedi altre per manifestare la propria volontà.

Credo che la situazione in cui l’Italia si dimena oggi sia, più o meno, uguale a quella che in diverse altre occasioni si è trovata a vivere: una profonda crisi che compromette il presente e, ancor più, il futuro; una classe politica complessivamente inadeguata che, dopo avere determinato una simile situazione, non trova di meglio da fare che scaricare, vicendevolmente, sugli avversari le colpe che sono anche proprie.

Il tutto in attesa che la buona Stella che protegge il destino italico intervenga a regalarci una  personalità in grado di riportarci fuori dal fango dal quale rischiamo di essere imprigionati.

È successo già molte altre volte ed oggi, a scrutare bene l’orizzonte, non sembra possano essere scorte personalità tali da rendere possibile un ennesimo miracolo. O, forse, ancora qualcuno potrebbe esserci, se solo l’ingombrante e deleteria occupazione delle Istituzioni da parte della bassa politica non ne impedisse la crescita e l’individuazione.

Resta il fatto, però, che l’anno appena chiuso ci ha portato via una delle personalità più spiccate, più genuine, più capaci, più preparate, più dotate di spirito di servizio, più disponibili  a prendersi sulle spalle un fardello pesante e gravoso pur di traghettare l’Italia fuori dai rischi in cui Essa è stata fatta precipitare.

Il 2016 ci ha portato via un servitore della Patria che ha consentito, praticamente da solo e spendendo tutto il prestigio di cui godeva oltre i confini nazionali, di non subire lo smacco di essere lasciati fuori dalla moneta unica europea all’atto della sua istituzione.

Il 2016 ci ha portato via il Governatore della Banca d’Italia che ha ridato lustro a questa alta Istituzione; ci ha portato via il Presidente del Consiglio che ha avviato una ricostruzione delle nostre Istituzioni; ci ha portato via un Ministro del Tesoro che ha risanato, per quanto possibile, l’economia nazionale, un Presidente della Repubblica che ha ridato ad ogni cittadino l’orgoglio di essere e di sentirsi italiano, che ha sdoganato il concetto di Patria, l’amore per il Tricolore, l’emozione per l’Inno di Mameli.

Ci ha portato via una personalità, una figura, un Uomo che ha rappresentato tutti quei valori laici e democratici sui quali si può basare la costruzione di una società civile e di una Nazione che, forte della sua storia, possa guardare con orgoglio al suo futuro.

Ci ha portato via un esempio di rettitudine, di onestà e di rigore, che sono stati apprezzati in tutto il mondo.

Ciampi è stato l’esempio vivente di tutto quello che un Patriota deve essere, di tutto ciò che un Uomo politico ed uno Statista deve rappresentare.
Rosario Altieri